Ti chiederei di raccontare come meglio credi la tua personale storia, l’esperienza che hai vissuto come persona malata e poi trapiantata… puoi raccontarmi tutto quello che ti senti di dirmi e nel modo che più ti va.

Posso partire da distante, se per voi va bene.

Mia figlia ha 41 anni. Quando ero incinta ho avuto alcuni problemi, come febbre alta e cistite. I medici hanno impiegato diverso tempo per capire i motivi di quel malessere e quando il dottore… Non ricordo il suo nome. Quando il dottore riuscì a inquadrare la situazione era troppo tardi: l’infezione aveva già raggiunto i reni. Dopo il parto sono stata trattenuta in ospedale una quarantina di giorni, ma fortunatamente mia figlia è nata sana ed è stata subito portata a casa da mia mamma.

Dopo il ricovero, i miei problemi sembravano essersi risolti: sono sempre stata bene.

Dopo altri 14 anni sono rimasta incinta della mia secondogenita: una gravidanza non attesa che mi ha spinta a recarmi in ospedale per chiedere qualche informazione. Seguita dal reparto di Nefrologia, ho portato a termine questa gravidanza: questa volta, non ci sono stati problemi. Stavamo bene entrambe.

«Ogni tanto torni, signora. Venga a farsi controllare», mi avevano detto i medici. Ma si sa: quando uno sta bene, nessuno va “a farsi vedere”.

Non ho avuto problemi, fino ai primi Duemila, quando ho cominciato a stare male. Ero anemica e stanca, il mio medico mi ha prescritto alcuni esami del sangue, per poi giungere a consigliarmi una visita nefrologica, memore delle mie gravidanze passate in ospedale. Non per nulla in Nefrologia mi hanno poi “sgridata”: «Avrebbe dovuto venire a farsi vedere».

Da lì in poi, per alcuni anni, ho seguito una dieta aproteica e fatto tutte quelle cose che i medici ti fanno fare per allontanare il momento della dialisi. Ho continuato coì fino a che i livelli di cheratina non hanno cominciato ad alzarsi e gli esami del sangue ad andare sempre peggio.

«Signora, deve fare la dialisi», mi dissero.

Non la emodialisi. Quell’altra. Quella di cui non ricordo il nome.

Che poi mi spiace non ricordare queste cose: le conosco benissimo, a memoria. Ma ecco, ora che sono agitata… Proprio non mi vengono.

In ogni caso, quella che facevo io era la dialisi attraverso la pancia. La facevo di notte, attraverso un macchinario che mi portavo a casa. Era un tipo di dialisi molto più leggera, ma con la quale si correva il rischio di prendersi delle infezioni. E io me la sono presa, l’infezione. Anzi, due. Poi tre. Fino a che non sono stata informata che, a quanto pareva, quel tipo di dialisi per me non era adatta; si è parlato allora di emodialisi vera e propria.

Mio marito (che, all’epoca, non era ancora mio marito) iniziò a proporsi come donatore di rene, per me che ne avevo bisogno. Io decisi di non scartare l’idea, ma preferii inserirmi nelle liste d’attesa per i trapianti di Parma e Novara.

Una notte ricevetti una telefonata: chiamavano da Parma per informarmi che ero la seconda persona in attesa per il trapianto di un rene. La cosa non andò a buon fine, almeno per me, perché riuscirono a trapiantare la prima persona in lista e, quando lo seppi, la mia reazione fu di paura. Non so perché mi spaventai: forse perché il discorso della donazione da parte di mio marito era ancora in piedi.

A quel punto, infatti, entrambi iniziammo tutta la trafila di esami e accertamenti utili per questo trapianto. All’epoca ero convinta che le donazioni si potessero effettuare solamente tra consanguinei, come mia mamma o mio fratello, invece risultammo compatibili.

Portammo avanti il discorso con il Dottor Berto, insieme alle infermiere del reparto. Andammo a tutti gli incontri con gli Psicologi a Novara e prendemmo parte a una serie di esami che faccio fatica a ricordare. Di certo siamo stati anche alle Molinette di Torino, così come a Novara per parlare con la Dottoressa B.

Per farla corta: avevo iniziato a fare l’emodialisi, ma, dal momento che era in programma il trapianto, non la feci in maniera, per così dire, “tradizionale”. Non mi misero un impianto, una fistola, nel braccio, ma nel collo, provvisorio. Come per le dialisi normali, andavo a Biella tre volte a settimana.

Infine ci comunicarono la data dell’intervento: il 13 dicembre del 2003. Andammo da un avvocato a Novara, poiché, non essendo sposati, erano necessari alcuni documenti particolari. In ospedale entrammo un giorno prima, il 12. Lì ho fatto un’ultima dialisi e il giorno dopo siamo stati operati. Di quel momento ricordo che prima hanno portato via F., quando io non ero ancora sedata. Lo ricordo molto bene: ricordo F. che se ne va, che ci salutiamo così: lui tutto vestito con camici verdi, e con la “cosa” in testa.

Non so se mezzora o un’ora più tardi sono venuti a prendere me. Giusto il tempo di fare l’espianto e poi l’impianto a me.

Ecco, qui è tutto più confuso. So che dopo due o tre giorni dall’operazione qualcosa non andava e sono stata operata nuovamente. Eravamo sotto le vacanze di Natale. F. mi racconta che i miei ricordi non sono corretti: a me pare di avere un ricordo unico, tutto insieme: un’operazione unica. Ora so che non è così.

Lui nel frattempo stava bene: è rimasto ricoverato in ospedale tre o quattro giorni, ma è poi subito tornato a casa. Per venirmi a trovare faceva su e giù, tutti i giorni. Stava con me e tornava a casa la sera. Io insistevo: «Facciamo un giorno sì e un giorno no», ma lui, niente. Era partito con l’idea di venire comunque a trovarmi. «Non è così pesante», diceva.

Il ogni caso, il rene faticava a riprendersi. Sono stata ricoverata 40 giorni, con la cheratina sempre troppo alta. Continuavano a tenermi lì, a tenermi lì. Quando chiedevo, i medici mi rispondevano che sì, tra qualche giorno mi avrebbero lasciata andare, avrei potuto tornare a casa. Ma alla fine sono stati 40 giorni.

Ancora un po’ più avanti c’è stato qualche altro problema.

È successo che ero allergica a un farmaco. Mi hanno ricoverata due o tre giorni per farmi rimettere in sesto e altre cosine così. Ora nemmeno me lo ricordo.

Oggi posso solo ringraziare F. che ha fatto per me proprio una cosa grande.

A oggi ti puoi ritenere soddisfatta di questo percorso?

Oggi mi ritengo soddisfatta del percorso fatto. La dialisi è pesante, veramente pesante… Ho 60 anni e dopo tante medicine prese, con qualche acciacco qua e là, sono comunque contenta: rispetto alla dialisi tutto questo non può che essere positivo.

Invece per quanto riguarda la decisione di F., eri preoccupata per lui, anche le prime volte che ne avete parlato com’è andata?

Le prime volte ero molto preoccupata per F.: come ho detto, non avevo assolutamente pensato a lui come donatore. Inoltre, all’epoca stavamo vivendo una situazione familiare particolare: eravamo da poco andati a convivere ma non tutti erano contenti della nostra decisione. Mia mamma non era contenta, le mie figlie non erano contente… Era un periodo un po’ così. Vivevamo io e lui, staccati dagli altri familiari.

Non essendo noi ancora sposati, impegnati in questa avventura assieme… sembrava tutto troppo grande da affrontare. Io stessa mi sono trovata ad affrontare la mia voglia di dire “no” al trapianto e alla sua donazione. Però lui continuava a insistere. Mi diceva: «Se stai bene tu, sto bene anche io».

Quindi, certo. Ero preoccupata per lui però, forse un po’ egoisticamente… Perché in momenti come quelli, un po’ d’egoismo c’è sempre…

Lui però era proprio convinto. E parla molto più di me. Anche quando andavamo dal Dottor Berto era lui a parlare; andavamo a Novara ed era ancora lui a parlare, a fare… Sembrava più deciso di me, insomma.

Prima hai citato i tuoi familiari, in tutto il percorso ti hanno supportata, hai ricevuto supporto anche da loro?

Sì, la mia famiglia mi ha aiutata. Anche le mie figlie, certamente, si preoccupavano della mia salute. Era il mio rapporto con quest’altra persona a disturbarle; non lo accettavano e, allora, era questo il problema più grosso per loro. Poi, nel momento in cui hanno visto che stavo bene, che anche tra me e lui tutto andava bene, allora hanno accetto la situazione. Però hanno faticato.

Oggi invece?

Oggi stiamo tutti bene: mia figlia ha dei figli che vengono tutti i venerdì a trovarmi a casa e anche con F. va tutto bene. I bambini all’inizio lo chiamavano addirittura “nonno”, anche se non è il vero nonno. Però di questo sono molto contenta… per come era partita, adesso sono molto contenta. Sì.

Invece un altro aspetto, per quanto riguarda il processo decisionale, anche tutte le visite che avete dovuto fare per la compatibilità, siete stati supportati anche dagli operatori sanitari, dagli psicologi ecc… Vi hanno aiutato in questo processo? O avete trovato delle mancanze?

Sono molto riconoscente nei confronti dei medici di Biella e quelli di Novara: hanno fatto, secondo me, tutto quello che dovevano fare e molto di più. Ci sono venuti incontro, anche il Dottor Berto e, quando tutto ha avuto inizio, c’era pure un’altra Dottoressa, di cui ora però non ricordo il nome. Anche lei è stata molto carina, molto disponibile. Le infermiere, poi… Pure il personale di Novara. Gli psicologi che abbiamo visto lì sono stati preziosi. Abbiamo persino fatto cose che, al momento, non riuscivamo molto a capire, come rispondere a molte domande o prendere parte a quei test delle macchie di Rorschach. Queste cose un po’ strane, insomma!

Non potrei che parlare bene di ciascuna delle persone che ci hanno aiutato.

Come hai vissuto questi momenti di valutazioni clinico-mediche, sono state un peso o in qualche modo te lo aspettavi?

No, me lo aspettavo. Quando abbiamo cominciato a parlare di questo trapianto ci chiedevamo proprio chissà quante cose avremmo dovuto fare. Anche F. ha dovuto fare moltissime cose: non era lui quello che stava male, ma ha fatto diversi esami. I medici dovevano sapere che stesse bene, che non avesse problemi, altrimenti non se ne sarebbe potuto fare nulla, giustamente.

Per quanto riguarda il tema dell’attesa, in un percorso come il vostro credo che ci siano tante attese, ti ricordi in particolare un momento di attesa difficile oppure emozionante nel tuo percorso?

Le attese… Io ho fatto la dialisi peritoneale (mi è venuta adesso in mente la parola) – Dicevo, ho fatto la dialisi peritoneale per un anno circa, poi, avendo queste infezioni, sono dovuta passare all’altra e non potevo fare altro che chiedermi «Chissà come sarà l’altra». Sei lì, che aspetti di vedere cosa succederà. Poi alla fine l’emodialisi l’ho fatta solo tre mesi: anche lì speravo che finisse in fretta, proprio per il peso che ha l’emodialisi rispetto alla dialisi peritoneale.

Infine, quando ci diedero la data dell’intervento, andammo via un weekend. Non tanto: con la dialisi non è che puoi andare via. Sabato mattina avevo fatto la dialisi; sabato pomeriggio siamo andati in Trentino. Lunedì mattina ero di nuovo lì per fare l’altra dialisi. Però è stato un modo per festeggiare, diciamo. Festeggiare e aspettare un con un po’ più di leggerezza questo 13 dicembre.

Ripensando al momento in cui ti avevano chiamata da Parma che era stato un momento di paura, il momento della chiamata del trapianto invece come è stato vissuto?

Ah, decisamente meglio. Ero contenta. Ero molto contenta.

La notte in cui mi chiamarono da Parma ero molto combattuta perché avevo paura e avevo in testa questa “cosa” da fare con F., ma allo stesso tempo mi dicevo anche «Se mi chiamano da Parma Fabrizio non deve “sacrificarsi”» e per lui sarebbe stato meglio così. Invece a me è venuto un panico incredibile. Non so perché, razionalmente non so spiegarmelo. Gli altri aspettano sempre questa chiamata mentre a me è venuto questo panico. Il dottor Berto, infatti, il giorno dopo mi ha chiamata a telefono e mi ha detto; «Guardi che mi hanno chiamato da Parma. Hanno capito che lei aveva paura e non era… ma come mai?». Eh non lo so come mai. Probabilmente perché inconsciamente preferivo (lo dico molto banalmente) il rene di F., anche se ero consapevole che se mi avessero dato quello disponibile a Parma lui non sarebbe stato coinvolto. Però probabilmente in quei momenti nella nostra mente si scatenano delle cose che neanche tu sai.

Certo…e com’è cambiata la tua e la vostra quotidianità da prima, durante la dialisi, a dopo il trapianto?

A parte la felicità nel venire a casa dall’ospedale, dal momento che, come ho detto, sono stata lì 40 giorni: già allora mi sentivo bene alla fine, il problema era solo questa creatinina che continuava ad andare su e giù; i medici volevano che fosse tutto proprio a posto, perfetto giustamente. Però, quando sei lì che aspetti e stai bene, hai proprio voglia di venire a casa.

Comunque per me la cosa più bella era il fatto di aver finito la dialisi e anche se dovevo stare in ospedale un pochino di più non mi importava.

E poi niente. Sono uscita dall’ospedale e abbiamo cercato un’altra casa perché io ero andata a vivere a casa di F. quando ci siamo messi assieme. Ne abbiamo cercata una tutta nostra, che è poi quella dove viviamo tutt’ora. La nostra seconda vita, la mia seconda vita, è iniziata così.

Quando anche mia mamma e le mie figlie hanno visto che stavo bene, che ero felice, il che è molto importante, e… Adesso non mi ricordo più qual era la domanda!

Ah, già.

La quotidianità. Io sono poi stata a casa sei mesi da lavoro, dal momento che lavoravo con i bambini all’asilo nido ed è un lavoro pesante. Inizialmente pensavo addirittura di non poterlo più fare e tutte le volte chiedevo ai medici: «Se sta bene, signora, non c’è problema». Però per me l’idea di alzare un bambino… che non sono pesanti, ma sono sui 8/10 kili in un asilo nido. La mia idea era quella che con questo rene nuovo non avrei più potuto fare niente, quando invece non è assolutamente vero.

Io dopo sei mesi ho ripreso a lavorare con i bambini ed è andato benissimo. Non mi sono neanche tanto ammalata: sai, i bambini hanno sempre raffreddore, influenze… Ho lavorato fino a qualche anno fa, ma proprio perché io sono più vecchia e i bambini sono più pesanti e quindi arrivi ad un punto in cui non ce la fai più. Però ho ripreso bene.

Direi che abbiamo toccati tanti temi, cosa dici? Poi non è facile provare a raccontare una cosa così grossa

Sì, non è facile perché a volte sono cose a cui, dopo un po’, smetti di pensare. È passato così tanto tempo.

Magari stasera, quando ci ripenso, mi vengono in mente altre cose da dire che non ho raccontato.

Sicuramente, ci sono talmente tanti aspetti che anche io se ci ripenso magari stasera mi vengono in mente altre cose che non ho chiesto. Non è da escludere che in un futuro si potrà organizzare un altro incontro insieme, nessuno ci vieta niente. Va bene, vorrei concludere solo con questo, visto che all’ultimo incontro avevamo chiesto di portare un oggetto/immagine e mi aveva colpito moltissimo quello che avevi portato del labirinto di lavanda, è un’immagine molto potente anche per descrivere la tua storia adesso che la sento raccontata per intero. Ecco, se adesso dovessi pensare ad un’altra metafora/oggetto ti verrebbe sempre in mente quello o magari qualcos’altro, adesso che hai appena raccontato la tua storia?

Prima del labirinto mi era venuta in mente una locomotiva, una di quelle vecchie, sai? Con il vapore che sbuffa, perché è una caratteristica che mi attribuivano già le mie figlie quando erano piccole: che io impiego molto tempo a carburare, a partire, in qualsiasi cosa; prima che mi decido a fare qualcosa ci va parecchio, ma quando mi decido vado, anche se un po’ con calma. Devo pensarci, devo parlarne. Non sono assolutamente impulsiva, in nessuna cosa della mia vita. Anche per la separazione dal mio ex marito, per esempio, ho impiegato tanto. Vivo le cose così… non so se sia un bene o un male, però io le vivo così.

Dicevo, mi era venuta in mente una locomotiva. Poi, casualmente, avevo visto questo labirinto e mi è piaciuto per la lavanda: una tappa della nostra storia, quella mia e di F., era stato il matrimonio con la lavanda. L’ho scelta per quello.

Altre immagini, in questo momento, non mi vengono in mente.

Va bene allora un’ultima cosa che mi è venuta in mente: se dovessi dare un consiglio, o una parola/pensiero a chi si sta approcciando a vivere questa esperienza, cosa diresti?

Eh, non è una domanda facile. Sicuramente non puoi dire «Ah sì non preoccuparti non è niente», perché non è vero.

Non so. Consiglierei di affrontarlo con calma; che non si tratta di una passeggiata, però che ce la puoi fare. È pesante anche il fatto di dover andare giù, in ospedale, due/tre volte alla settimana, però come noi siamo riusciti a recuperarci questa breve vacanza, se ti organizzi qualcosina si riesce a fare. Non è che dici proprio: bom, non farai più niente. Noi qualche giretto lo facevamo lo stesso, nonostante la dialisi. Un weekend, non di più. Ma lo facevamo.

Ci hanno poi spiegato che se avessimo voluto andare via in vacanza ci sarebbe stata la possibilità: esiste la possibilità di andare all’ospedale mettendosi d’accordo… però…

Diciamo che ho avuto la fortuna (che è stata una grande fortuna) di fare dialisi solamente un anno e mezzo. Certamente per le persone che si trovano in dialisi da anni e anni la situazione è proprio pesante. Anche perché se devi farlo, devi farlo. Probabilmente la forza arriva anche da quello: subito, quando te lo dicono, prendi un bel colpo, un colpo che ti spaventa tanto. Se però non hai altre possibilità speri sempre che ci sia la possibilità di un trapianto, che quindi la dialisi non la dovrai fare più e vai avanti così.

Da quello che ho potuto capire, ti ricordi bene il momento in cui ti hanno detto questa cosa, della malattia, il momento di coscienza di malattia.

Sì. Erano circa 40 anni fa, però poi sono quelle cose per cui ti dici «Ma sì, per adesso sto bene», in maniera anche un po’ incosciente. Avevo anche venti anni e quindi, sai, la prendi così.

Quando poi arrivi al punto in cui ti dicono che è ora, che non puoi più andare avanti così. Il colpo lo prendi. Però, come ho detto, se devi farlo lo fai. È un periodo brutto, ma superi anche quello, per forza.