Ti chiediamo di raccontarci nel modo in cui preferisci, che ti viene, quella che è la tua storia sia dal momento in cui hai scoperto la tua malattia, e poi tutta la storia che ti ha portato al trapianto, e quello che hai vissuto dopo il trapianto. Proprio la tua esperienza completa…Quando vuoi partire noi non ti interromperemo, soltanto alla fine nel caso ti facciamo qualche domanda per approfondire.
La mia esperienza inizia all’età di quattro anni quando i miei genitori, dopo diverse crisi di tosse scambiata prima per pertosse e poi riconosciuta come fibrosi cistica, sono venuti a conoscenza di questa patologia. Ciò avveniva nel 1977 e all’ora le cure e la conoscenza di questa patologia erano ancora molto remote. Fu un medico di Biella che aveva tre figli, uno sano e due affetti da fibrosi cistica, che indirizzò i miei genitori all’istituto Gaslini, dove era trattata questa patologia.
Quindi da quel momento sono iniziati gli iter di ricoveri e controlli, che comunque dai quattro ai diciotto anni non sono stati più di tanto impegnativi, perché per fortuna stavo discretamente bene. Comunque anche i miei genitori in quegli anni si sono trovati davanti ad una patologia che non conoscevano e non c’era l’assistenza psicologica che hanno adesso i genitori di un paziente di fibrosi cistica, quindi erano completamente abbandonati.
Mano a mano che passavano gli anni la situazione, dopo diciotto anni, è peggiorata. È peggiorata perché sono aumentate le infezioni polmonari, le infezioni da Pseudomonas, e quindi sono iniziati i ricoveri con decine di antibiotici molto molto impegnativi, con dei dosaggi veramente da cavallo, con tre, a volte anche quattro, antibiotici associati assieme.
Questi ricoveri erano veramente pesanti, perché dopo 15/20 giorni di queste flebo uscivo quasi più distrutta di come eri entrata. Ricoveri che i primi anni affrontavo i ricoveri con mamma, perché restava lì insieme a me…e poi me li sono fatta da sola. Questi ricoveri erano lunghi, anche perché tra di noi pazienti di fibrosi cistica non potevamo interagire, proprio per non infettarci con i vari ceppi di Pseudomonas che c’erano o altre infezioni, quindi o parlavamo distanti come adesso che c’è il covid a due/tre metri, oppure stavamo chiusi nei nostri box tutto il tempo. Però, nonostante tutto, vedevamo il progredire della patologia di chi era più avanti di noi, quindi vedevamo alcuni ragazzi che si aggravavano. Ne ricorderò sempre uno, si chiamava Ferdinando, e all’ora negli anni Novanta fece un viaggio impegnativo in America per cercare di essere trapiantato di polmoni. Purtroppo non andò a buon fine per il viaggio molto impegnativo e ne subì le conseguenze. Questi erano i momenti forse più brutti, più difficili, perché vedevi il tuo futuro. Nelle persone che stavano peggio di te vedevi il tuo futuro, e se non eri un po’ realista non riuscivi ad andare avanti. Perché o accettavi il trapianto come unica soluzione, o non avevi alternativa, perché nel frattempo la tua funzionalità respiratoria scendeva sempre di più fino ad arrivare ad un trenta/venti per cento e diventavi ossigeno dipendente, prima di notte e poi di giorno. Di notte a volte non ti bastava l’ossigeno quindi ti serviva il respiratore per riuscire ad ossigenarti e a muoverti, e il peso continuava a scendere perché tra la fatica di respirare, tra la continua tosse che avevi per espellere questo muco, alcuni di noi erano veramente sottopeso.
Più si formavano resistenze all’interno dei nostri polmoni meno antibiotici a disposizione c’erano. Quindi l’unica possibilità, anche se impegnativa, era la candidatura in lista d’attesa per un trapianto di polmoni, trapianto che non sapevi quando sarebbe arrivato, quindi fino a quel momento bisognava riuscire a lottare con i farmaci che erano rimasti a disposizione e con le nostre forze, che erano sempre più deboli. Tutto diventava più impegnativo, anche solo spostarsi da una stanza all’altra all’interno della casa era veramente un sacrificio.
Per assurdo io cercavo di lavare i piatti solo proprio per fare il movimento di lavare i piatti e poi metterli sopra nel mobile ad asciugare per poter usare le braccia, per poter fare un po’ più di movimento. Sembrerà assurdo, ma anche quello era una piccola fisioterapia. O anche solo i diciotto scalini che c’erano per andare su nell’appartamento dei miei: a più riprese però cercavo sempre di farli perché comunque la muscolatura stava andando, e piano piano ci si consumava.
Nel 2005 ho iniziato questo iter dove ti fanno tantissimi esami per poi entrare in lista d’attesa.
Ho fatto un ricovero di tre settimane, sfiancante perché comunque ero stanca e ogni giorni quasi dovevo sopportare questi esami abbastanza invadenti, però ci credevo, io lo volevo. A differenza di altri ragazzi io il trapianto lo volevo fare, avevo bisogno di togliermi da dosso questi due polmoni che ormai erano diventati due pietre, erano veramente rigidi, pieni di muco, ed era l’unica speranza che avevo. Se non che, purtroppo, dopo aver fatto mille esami qualcosa è emerso, e dal primo esame che mi hanno fatto quando ero addormentata all’ospedale di Bergamo (un esame che al Gaslini mai avevano pensato di farmi) sono risultata positiva alla TBC, e quella fu una batosta tremenda perché fui sospesa dalla lista d’attesa. Ho dovuto iniziare una terapia di due antibiotici che erano tremendi, due antibiotici presi a digiuno al mattino. Dopo qualche somministrazione mi sentivo una lastra di marmo nello stomaco da tanto che erano pesanti questi farmaci. Lì è stata una notizia tremenda… primo perché avevo il terrore di aver infettato i miei genitori, anche se il dottore dell’Ufficio di Igiene che c’era ai tempi, adesso non mi ricordo il nome, molto gentile e molto disponibile, mi aveva spiegato che era un batterio della TBC che però non si trasmetteva. Comunque erano stati sottoposti ai controlli anche loro, per fortuna erano risultati tutti e tre negativi, quindi quello mi ha rassicurato un po’. Il problema è che ero in sospeso con questa lista di attesa, quindi prima mi dovevo fare questa terapia che normalmente dura sei mesi, ma che io ho dovuto fare per nove. Inoltre, non c’era una casistica a livello scientifico di un trapianto polmonare con TBC, quindi questo mi ha buttato proprio giù perché mi sono detta “Sarà difficile che io riesca ad arrivare fisicamente a quel momento e sarà difficile che loro magari mi trapiantino visto queste condizioni”. Comunque ho fatto la mia terapia con un prelievo settimanale per controllare il fegato, perché questi antibiotici che ho dovuto assumere erano molto invadenti, e poi nel mese di ottobre del 2006 sono rientrata in lista di attesa. Sono rientrata in lista di attesa e da lì sono passati ancora dieci mesi prima del trapianto, dieci mesi che sono stati lunghi, pesanti, interminabili, però nonostante ciò ho continuato ad andare a lavorare fino all’ultimo giorno, con molta incoscienza perché mi era stato suggerito vivamente di stare a casa, anche perché se i polmoni fossero collassati anche solo una volta non sarebbero riusciti a recuperarmi. Restare a casa però voleva dire andare via di testa perché restare a casa, aspettare un trapianto che non sai quando arriva… non sarei stata di aiuto neanche ai miei genitori a farmi vedere in quelle condizioni, quindi con estremi sforzi mi sono sempre presentata a lavoro. Mi ricordo che da Cossato fino a Chiavazza arrivavo in macchina e facevo fatica a tenere il volante perché facevo talmente fatica a respirare che mi faceva male tutto il torace. Comunque fino all’ultimo giorno sono stata presente.
Poi c’è stato il mese di giugno, due mesi prima il trapianto, che non ne potevo proprio più. Non ne potevo più a livello psicologico perché questa incertezza, questa attesa di un qualcosa che non arrivava, questo peggiorare, questa mancanza di respiro, di aria che continuava a peggiorare… era dura.
Il mese di giugno ho veramente faticato. Questo aspettare un trapianto che per me forse avrebbe voluto dire star meglio ma nello stesso momento avrebbe voluto dire aspettare la morte di qualcuno, anche se non voluta però c’è questa correlazione… era una sofferenza psicologica tremenda.
Comunque, poi ci siamo ritrovati al 6 di agosto 2007, era un lunedì e faceva tanto caldo. Alle otto è arrivata questa chiamata dall’ospedale di Bergamo e la prima sensazione che ho provato quando mi hanno detto che c’erano due polmoni per me è stata sentire le orecchie fischiare. Ho sentito queste orecchie fischiare e è stata un’emozione fortissima… tanto è che subito al chirurgo ho detto “No no non posso venire”, perché mi ero ripromessa che il giorno dopo, che avevo preso un giorno di ferie, non so come ma avrei portato mia mamma ad Ondaland, perché poverina non si fermava mai, non stava mai un attimo tranquilla e quindi con le due bombole d’ossigeno, con l’aerosol portatile, mi ero organizzata di andare fino là, passare la giornata con lei e poi niente se non ce l’avessi fatta tornare a casa, sarebbero venuti a riprenderci, quindi quel martedì era destinato a lei, la volevo portare una volta fuori casa, ripeto, con immensa fatica, non so nemmeno se sarei riuscita a superare la giornata. Quindi io al chirurgo ho detto “No no io devo portare la mia mamma in piscina” e lui un po’ sconvolto mi ha detto “No Eugenia non scherzare, adesso ti prepari e entro due ore devi essere qua, se trovi qualche difficoltà per strada contatta subito questo numero che ti lascio e ci vediamo tra due ore”.
In quel momento lì c’è stata una svolta, abbiamo chiuso le valigie che erano già pronte e che erano già state cambiate e ricambiate di stagione. Mio papà era completamente di cera, bianco, non presente, non riusciva più a connettere poverino. La mia mamma, che è sempre stata la figura più debole e che ho sempre dovuto seguire di più perché ha avuto tante difficoltà, è stata la più forte. In quel momento lì, in quei giorni lì è stata la più forte. E il mio compagno anche.
Poi ci siamo presi dietro il cagnolino, perché aveva qualche mese e non sapevo a chi lasciarlo, quindi ce lo siamo portati dietro ed è venuto anche lui in ospedale, poverino ha passato la notte in macchina.
Siamo arrivati là, mi hanno fatto due/tre esami di controllo, i raggi, e sinceramente a quel punto lì poteva andare come voleva, non mi interessava, l’importante era che non fossi rimandata a casa, perché c’era anche quella possibilità, perché ero veramente stremata.
Mi dissero che gli organi erano vicini, erano in Italia, che era un donatore molto giovane e che sarebbero andati a prenderli e sarebbero arrivati verso mezzanotte. Quella doveva essere l’ora di ingresso in sala operatoria. In quel momento ci fu un ritardo dovuta all’equipe dell’espianto, per cui arrivarono alle 3.
Con l’ossigeno avevo una saturazione a 77, ero davvero consumata, in più c’era tutta una componente di stanchezza e di stress assieme. Comunque alle 3 sono entrata in sala operatoria e alle 10 e mezza sono uscita. L’intervento era andato molto bene, ci furono soltanto pochi secondi di ipossia ben gestiti, per cui non fu neanche necessaria la circolazione extra corporea, quindi il chirurgo rimase molto soddisfatto.
Verso le 13 mi sono ripresa e da lì in poi le uniche cose che io sapevo erano quelle che mi erano state raccontate da altri miei colleghi che avevano superato il trapianto e alcune informazioni che avevo letto. Ero in terapia intensiva e c’erano tutti dentro, c’erano tutti a differenza dei racconti che avevo ricevuto in cui mi si diceva che i parenti potevano rimanere solo fuori dalla finestra. Vedendo tutti in camera mi sono subito un po’ preoccupata, perché c’era mia mamma, mio padre, il mio compagno, poi a sinistra qualcuno che mi teneva la mano, allora ho pensato che per essere tutti in camera il mio intervento non fosse andato bene, che li avessero fatti entrare per salutarmi. Anche perché, sicuramente per la stanchezza, però mia mamma e mio papà erano abbastanza seri, sembravano preoccupati. A sinistra poi c’erano mio zio che mi teneva la mano e mia zia, che mi sorrideva e a quel punto, vedendola sorridere, ho capito che forse le cose erano andate bene.
Mi sono tirata su e ho visto le mie dita che erano diventate rosa, a differenza di prima che erano completamente viola, e piano piano sentivo che riuscivo a respirare oltre al respiratore e a muovere io la cassa toracica. Quello mi ha rincuorata molto perché sentivo che riuscivo già a comandare io la respirazione nonostante l’intubazione. In effetti, dopo poche ore, sono stata estubata e qualche giorno dopo, anche se non ero tanto d’accordo, mi avevano già fatta alzare e mangiare.
In pratica io non me ne sono accorta: sono entrata in sala operatoria distrutta e mi sono risvegliata in condizioni eccellenti, tanto è che quando mi hanno estubata non mi volevano neanche mettere l’ossigeno, me l’hanno messo perché era una mia insicurezza psicologica, perché pensavo proprio di non riuscirci a stare senza. A parte il dolore forte che provavo alla schiena per l’intervento, e i drenaggi che mi sono stati tolti dopo tre giorni, ho iniziato a respirare come forse non ho mai respirato in vita mia e quelle sono state emozioni fortissime, perché non mi sembrava vero dalle condizioni in cui ero arrivata in cui boccheggiavo, non riuscivo a dormire più di notte per questo buco che dovevo sempre tirarmi su… a riuscire a respirare così bene, avere la saturazione a cento senza ossigeno, camminare e non accorgermene e dormire di notte a pancia in su, io che non ero mai riuscita a dormire, era qualcosa di veramente fantastico.
Insieme a queste emozioni fortissime di gioia, però c’era un dolore immenso perché lì vicino qualcuno stava soffrendo per la perdita di un suo caro, quindi si alternavano questi momenti di gioia immensa a questi momenti duri, tristi, molo sofferenti.
E questo è quanto. Dopo quindici giorni sono stata dimessa e ho iniziato a fare tutto, tutte le cose che prima non potevo far, o che se facevo dovevo pensarci bene per capire se ci sarei riuscita con le mie forze e se avrei avuto abbastanza respiro per farcela.
E… questa è la storia. Sono passati tredici anni, tredici anni che sono volati perché comunque quando si sta bene il tempo passa, passa velocemente. Ho avuto due ricoveri, uno per una gastrite dovuto ad un antinfiammatorio che avevo dovuto prendere per i denti, e l’altro per l’aspergillo, perché i virus purtroppo per noi trapiantati sono un problema e per noi trapiantati di polmoni ancora di più, perché i polmoni sono un organo molto a contatto con l’aria, quindi è facile sottoporlo a infezioni. Però questi tredici anni sono stati veramente un regalo, un gran bel regalo.
Beh innanzitutto grazie per la tua storia, perché è davvero molto emozionante e ci dà la possibilità di sentire cose che normalmente non abbiamo modo di sentire perché non se ne parla, invece secondo me è importante ed è giusto che se ne parli, che queste storie vengano raccontate perché sono un esempio di forza. Nel senso che tu sei stata sottoposta ad un’attesa lunghissima, lunghissima prima di poter arrivare al trapianto e nonostante gli ovvi momenti di incertezza e di grande difficoltà come penso sia del tutto normale, anzi penso sia impossibile non viverli, traspare la grande forza che comunque tu hai avuto, almeno quello che ho percepito io è come tu non abbia mai mollato anche nei momenti di difficoltà e questa cosa secondo me è molto bella, è un grande, grandissimo esempio. In riferimento a questo mi viene un po’ forse da chiedere se questa grande forza che hai trovato l’hai trovata in te, o c’è stato qualcosa in tutto questo tempo che ti ha permesso di affrontare tutta questa lunga attesa appunto con questa forza che ti ha contraddistinto.
Allora la forza secondo me un po’ viene, è un istinto di sopravvivenza. Quello che forse ha distinto me e altri da altri ragazzi con la fibrosi cistica è la razionalità di aver capito che ad un certo punto non c’è più niente da fare. È l’unica, l’unica possibilità.
Adesso sono passati tredici anni e a livello farmacologico stanno facendo diverse scoperte che sembra funzionino per la fibrosi cistica, che aiutino i pazienti. Infatti ora stanno chiedendo che questi farmaci siano passati a tutti quelli che hanno questa mutazione a livello compassionevole, perché poi nella fibrosi cistica ci sono tantissime mutazioni.
Però è giusto che queste storie vengano diffuse, vengano raccontate, perché c’è un’enorme quantità di pazienti, soprattutto tra quelli giovani, che non capiscono che ad un certo punto il trapianto è l’unica scelta. È l’unica scelta e a volte non è sostenuta dai genitori, perché sono timorosi ad accompagnarli in questo percorso. Io posso dire però, purtroppo, che tante delle persone che ho conosciuto le ho perse proprio perché sono arrivati a questa scelta troppo tardi, quando le loro condizioni erano peggiorate troppo ed il tempo che serviva per arrivare ad il trapianto era troppo lungo per poterlo percorre.
Quindi penso sia giusto che ci sia una diffusione di questi racconti, per invogliare le persone, incentivarle a seguire questo percorso.
La razionalità secondo me mi è servita tanto, come mi è servita tanto la presenza di mia madre e di mio padre, perché tutto quello che ho fatto l’ho fatto per loro. Quel famoso mese di giugno se non avessi avuto loro, se non ci fossero stati loro, forse avrei preso altre strade, ma non potevo farlo per loro. Quindi ho tenuto duro da giugno ad agosto, da giugno a quando sarebbe arrivato il giorno del trapianto, se sarebbe arrivato… proprio perché c’erano loro, perché con tutti i sacrifici che hanno fatto quando io avevo quattro anni, tutti gli sforzi che hanno investito, le rinunce che hanno fatto, i pianti che si sono fatti… io dovevo tener duro, lo dovevo fare per loro.
E poi come ho detto, penso che arrivati a certe condizioni subentri l’istinto di sopravvivenza.
Per quanto riguarda la tua famiglia invece, dopo il trapianto la tua vita famigliare è cambiata? Perché da quello che ho potuto capire in un percorso come il tuo la tua famiglia ti è stata molto vicino, molto di aiuto durante tutta la fase che ti ha portato al trapianto. Dopo invece questo momento?
Dopo è rimasto così, perché viviamo in una casa a due piani quindi quando io sono andata a vivere da sola mi sono spostata al piano sotto, mentre loro abitano al piano sopra, per cui è cambiato ben poco.
Sicuramente ho acquistato più autonomia, più forza… e loro forse ne hanno risentito. Non so neanche se a livello negativo o no… forse erano talmente abituati a farmi da chioccia che questa mia possibilità di fare tutto, soprattutto a mio padre, li spaventava, tant’è che qualsiasi cosa volessi fare, qualsiasi cosa normale io volessi fare, ad esempio imparare a sciare, per lui sembrava un’esagerazione, tant’è che il chirurgo gliel’ha detto, che avevamo combattuto e lavorato proprio per far sì che io potessi fare le cose che a lui ora spaventavano tanto.
Però no, la mia situazione famigliare non è cambiata. Loro sono sopra e io sono sotto.
Forse sono stati da un lato un po’ più tranquilli perché mi hanno vista stare meglio, ma dall’altra parte c’è comunque sempre il pensiero di un rigetto, il pensiero di qualche infezione. Però mi hanno sicuramente vista faticare di meno o perlomeno non mi hanno più vista faticare come faticavo prima.
Innanzitutto volevo ringraziarti anche io per la testimonianza… stavo cercando ora di elaborare anche io una serie di cose perché mi ha colpito molto questo racconto che parte da quando tu avevi quattro anni, quindi mi stavo immaginando tutta la storia e tutte le varie implicazioni che può avere una storia così… ecco volevo chiederti se hai qualche ricordo in particolare di quando eri ragazzina o adolescente, non ricordo da che età hai avuto l’ossigeno con te sempre?
L’ossigeno ho iniziato ad usarlo due anni prima del trapianto, però la vita dei malati di fibrosi cistica è sempre una vita diversa da quella degli altri ragazzini, perché sei sempre tenuto sott’occhio. Se esci a giocare con gli altri non devi sudare… sei sempre sotto una campana. Poi dipende anche da genitore a genitore, ma penso che le situazioni fossero sempre tutte uguali, quindi se uscivo non doveva esserci aria, non doveva esserci troppo caldo, non doveva esserci troppo freddo; se andavo a giocare non dovevo sudare… Ho il ricordo di quando ero piccolina, l’età proprio delle elementari, che c’era una mia amichetta, forse la migliore amichetta, che abitava qua vicino e che lei al pomeriggio scorrazzava su e giù con la bici e io la guardavo dalla finestra.
Sì, è proprio un modo di vivere completamente diverso da quello che le persone normalmente intendono… siamo così concentrati su di noi che diamo per scontato che tutto quello che facciamo lo possano fare tutti, a partire proprio da queste piccole cose… quando in realtà non è così… quindi è stato proprio un tornare… o forse più che un tornare forse un cominciare davvero a vivere col trapianto…
Sì sì, infatti nel mio profilo di Facebook c’è scritto che io sono nata a Bergamo: luogo di nascita “Bergamo” invece di Biella.
A me è venuto in mente una cosa rispetto ad una cosa che avevi detto durante gli incontri… mi aveva colpito moltissimo quando avevi scritto nel tuo racconto il fatto di questo legame con l’organo, come tu fossi cambiata sotto alcuni aspetti di te dopo il trapianto…
Ecco questo è un discorso che molti non ascoltano e che non viene neanche forse considerato dai medici. Si chiama memoria cellulare. Sembra che delle cellule del donatore sopravvivano all’interno del ricevente, ma sopravvivano proprio a livello di gusti e di comportamenti. In effetti ci sono state delle situazioni a cui mi sono trovata davanti e che ho detto “non fanno parte di me”.
Non me ne sono resa conto subito e forse me le hanno anche fatte notare. La più assurda forse è questa cosa di ascoltare Piero Pelù. Io prima del trapianto l’ho sempre detestato, proprio mi faceva ribrezzo come persona, e associandolo all’uomo che era anche la sua voce mi era insopportabile, quindi l’ho sempre evitato, come lo sentivo in una radio cambiavo stazione, non ne volevo proprio sapere. Al mio compagno invece piaceva, tant’è che aveva proprio le sue cassette da ascoltarsi quando io non c’ero. Dopo il trapianto mi sono invece accorta che per me era una musica orecchiabile, conosciuta, che mi piaceva tantissimo, tant’è che sono andata a vedere 3 o 4 concerti. Me l’avessero detto 20 anni fa, ma mai più. E questo è successo da un momento all’altro. Non è che ho ascoltato qualche canzone e da lì ho iniziato ad apprezzarlo, no… è successo proprio da un momento all’altro.
Un’altra cosa con cui non avevo nessun problema prima del trapianto, e che io associo sempre alla memoria cellulare anche se magari non è vero, è la difficoltà ad avvicinarmi a delle profondità importanti. Quando ero ragazzina sono andata sulla Tour Eiffel e non avevo avuto problemi, adesso invece se mi avvicino per vedere un panorama in un dirupo o qualcosa del genere non ce la faccio, non riesco proprio.
Anche altre persone trapiantate con cui mi sono confrontata mi hanno detto di aver riscontrato questa memoria cellulare in cose che prima non riuscivano a mangiare e che dopo il trapianto hanno iniziato a mangiare con gusto.
È un tema molto interessante e importante anche questo e che come hai giustamente detto tu penso non sia preso forse troppo in considerazione… adesso anche a me effettivamente non era venuto in mente, però è così… penso che ci sia tutta una serie di implicazioni anche dopo il trapianto, dopo una storia così importante e dopo quello che è successo… A proposito di questo volevo chiederti… adesso, attualmente, per quanto riguarda l’organo e il donatore, che prima parlavi giustamente proprio di questi sentimenti ambivalenti, di gioia per il trapianto ma di estremo dolore perché qualcuno insomma… è morto… e volevo chiederti… adesso è ancora così? Sei ancora con questi sentimenti ambivalenti o è cambiato qualcosa?]
Ogni 7 del mese per me è una ricorrenza importante. Il secondo anno dopo il trapianto sono andata alla ricerca di questa persona.
Dalla cartella clinica che mi ero fatta dare a Bergamo c’era scritto che i polmoni del donatore risultavano di Verona, quindi sono andata in biblioteca a Verona a richiedere l’Arena, il giornale locale di quel periodo. Ho guardato su tutti i giornali di quel giorno fino ad un mese prima, ma ho trovato ben poco, se non una ragazza morta all’estero, ma non era sicuramente lei, e un ragazzo giovane che aveva avuto un incidente in motorino e che era in condizioni drastiche, però poi il giornale non ha riportato più nulla. C’era il riferimento ad una caserma dei carabinieri, quindi se mi avessero aiutato avevo ancora quella possibilità per arrivare a qualche parente del mio donatore.
Più che altro io volevo sapere, visto che mi avevano detto che era una persona giovane, se aveva dei figli. Io non so giovane quanto, però volevo sapere se avesse dei figli, quello mi sarebbe piaciuto saperlo, però, proprio quando sono rientrata da Verona, ho trovato un signore che abitava davanti a casa mia qualche anno fa che aveva perso la moglie per una emorragia cerebrale e aveva donato il cuore della moglie. In quell’occasione mi ha fatto i complimenti perché mi vedeva star bene, ed era contento per quello che mi era successo. Io gli ho raccontato che ero appena stata a Verona a fare questa ricerca, ma lui, sentendo queste parole, si è spostato un attimo, è diventato serio e mi ha detto “Guai se io mi trovassi davanti chi ha ricevuto il cuore di mia moglie”.
Quelle parole mi hanno colpita molto, perché io fino ad ora avevo pensato ai miei desideri e non a quelli che potevano essere quelli della famiglia donatrice e quindi quello mi ha bloccato un po’. Infatti non ho più cercato, non ho più approfondito.
So che fino ad una certa data, che forse sarà stata fino a tre anni dal trapianto, il momento giusto non lo so, io continuavo a chiamarli “i polmoni del mio donatore”. Quando andavo a fare il controllo e dovevo dire qualcosa io dicevo “i polmoni del mio donatore”. Per me erano qualcosa che mi era stato dato e di cui io dovevo avere estrema cura, però erano sempre ben distinti da me. Mi sono proprio resa conto che facevo il confronto tra i miei polmoni e quelli del mio donatore, perché se dovevo parlare di come stavo prima del trapianto dicevo “i miei polmoni”, mentre se mi riferivo al periodo successivo all’operazione invece dicevo “i polmoni del mio donatore”.
Poi, ad un certo punto, c’è stato un momento, in cui in automatico, ho detto “i miei polmoni” parlando di quelli che avevo ricevuto e in quel momento ho capito che erano proprio entrati a far parte di me.
Sì è sicuramente un aspetto importante, anzi sei anche stata brava tu a rendertene conto… a capire questo fatto… anche qui è un’altra tematica importante… perché di trapianti ce ne sono di tanti tipi, ma in questo caso, trapiantato da cadavere implica anche l’aspetto famigliare ed è interessante questa cosa che ci hai raccontato… dell’altra famiglia… non è scontato che abbia voglia di vedere chi ha ricevuto l’organo… quindi grazie anche per questo racconto…
Bene o male penso che abbiamo parlato un po’ di tutti i temi che ci eravamo prefissate… quello che vorrei chiederti è… adesso quando pensi al futuro a cosa pensi? Come lo vedi il tuo futuro?
Io ho sempre accelerato i tempi. Quando ero più giovane mi sono sposata forse con la paura di non riuscire a farlo più in là nel tempo, sbagliando forse anche la scelta, però vedendo quello che avevo davanti facevo i miei calcoli, anche perché basandomi sui miei colleghi, non è che avessi tanto tempo. L’età media della fibrosi cistica è sui 40 anni ora, perché si è allungata un po’ con le terapie e con i trapianti, però anni fa era molto più breve e quindi lì ho sbagliato pensando al mio futuro.
Adesso invece penso a domani e a dopodomani.
Forse ti permette di goderti anche di più le cose essendo proiettata sul presente e non troppo sul futuro…
Certo… Oggi ci sono, oggi sto bene, sto abbastanza bene, domani anche e poi quello che viene si affronta e tutto quello che è in più è ben voluto.
Penso sia una bella lezione per tutti… Adesso un’ultima domanda che mi è venuta in mente adesso… quando prima hai raccontato di tutte le cose che non erano per niente scontate per te…. Ho proprio il flash di quando dici dei 18 gradini per andare sopra dai tuoi genitori… immagino che tu li abbia anche contati tante volte per la fatica che ti costavano… una volta che hai fatto il trapianto, forse adesso son passati 13 anni quindi forse è diventata una cosa un po’ più scontata, però immagino all’inizio quei 18 gradini che riuscivi a fare con più facilità… che emozioni ti davano?
Sono state emozioni fortissime perché non tutti purtroppo hanno una ripresa così. Un po’ perché i pazienti di fibrosi cistica sono veramente sottopeso, mentre io bene o male ero riuscita a mantenere il mio peso, Io mi sono presentata in sala operatoria con cinquantasette kg, quando di solito le ragazze arrivavano sui trentacinque, quaranta, non di più, quindi la mia ripresa è stata immediata. La fitoterapista il giorno dopo il trapianto mi ha tirata in piedi, tant’è che io ero scettica.
Sembrava un sogno, sembrava un sogno anche andare da qua all’altra parte del vecchio ospedale di Bergamo a piedi. All’interno c’è un giardino e per me era irreale… avevo quasi paura poi di svegliarmi o che qualcuno me li togliesse.
Grazie, grazie davvero… in realtà si potrebbe stare a parlare per delle ore… da un lato mi stanno venendo in mente tantissime cose, dall’altro tu ci hai detto già tantissimo e sei stata anche molto molto chiara, quindi penso sia un racconto preziosissimo quello che ci hai fatto oggi… anche perché personalmente io di questa malattia non conoscevo quasi nulla quindi grazie… perché fa aprire un po’ gli occhi su tante cose… possiamo magari farti una domanda per concludere, a meno che non ti sia venuto in mente a te altro che vuoi raccontarci…
Be le cose comunque sarebbero tante perché poi nel frattempo in tutti questi anni ci sono state mille sfumature, mille sofferenze digerite e portate avanti, mille dolori portati avanti, mille emozioni belle anche. Anche perché durante quei ricoveri al Gaslini c’erano immensi gesti di affetto da parte delle infermiere, che ci portavano la focaccia alle 7 del mattino, c’erano altre attenzioni dei medici…
Sono tante le cose che si vivono dietro una patologia così impegnativa e soffocante.
Nonostante tutto noi eravamo nel reparto insieme ai ragazzini di distrofia muscolare, quindi c’era veramente quasi un confronto, perché tutto sommato a noi una possibilità ci veniva ancora data, per quanto dura e cruda potesse essere quella di affrontare un trapianto che potevi non superare, però una possibilità ce l’avevamo rispetto a questi ragazzini della distrofia muscolare, che non avevano nulla se non una sedia a rotelle a cui erano legati perché il loro corpo non riusciva neanche più a stare seduto.
Quindi diciamo che negli anni hai potuto avere anche un sostegno dagli operatori sanitari, hai avuto delle belle esperienze anche con loro?
Si belle, soprattutto da parte delle infermiere, perché poi comunque ci hanno cresciuti per diversi anni e ci hanno coccolati. C’erano momenti un po’ più duri, un po’ più difficili coi medici, in cui si urlava anche per far sentire il nostro bisogno, le nostre difficoltà, che forse non volevano o non riuscivano a percepire in certi momenti… è un insieme di sentimenti forti durati anni.
Hai avuto la possibilità di ricevere, quando eri più grande anche, un supporto psicologico o come dicevi all’inizio non era tanto colto questo aspetto?
Forse verso il ’95 nel Gaslini è stata inserita una figura psicologica per seguirci. Era una persona molto graziosa, molto dolce che incentivava proprio alla confidenza, alla richiesta d’aiuto. In effetti ho un bel ricordo. Mi è anche stato molto utile, non tanto per la mia patologia, quanto per affrontare quel periodo con mia suocera, perché era più difficile il rapporto con mia suocera che quello con la fibrosi cistica in quel periodo.
Quando sono entrata poi a Bergamo per l’iter degli esami c’era una figura, una dottoressa che ci seguiva a livello psicologico se ne avessimo avuto bisogno, e un’altra distinta per il nucleo famigliare. Erano due figure distinte. A quei tempi invece al Gaslini non c’era una figura che seguisse i genitori a livello psicologico purtroppo e dico purtroppo perché alcune ragazzine non ce l’hanno fatta proprio perché i genitori non volevano assolutamente accettare il trapianto.
Eh sì penso che sia molto importante anche questo aspetto qua… soprattutto per quanto riguarda il trapianto che penso che sia ancora oggi una questione molto dibattuta, purtroppo… è una questione complessa che a volte forse andrebbe affrontata in modo diverso, proprio a partire da chi la gestisce, già soltanto appunto a partire dal livello del supporto psicologico… molto spesso non viene preso in considerazione, quando in realtà forse poi è proprio quello che fa la differenza… sia per chi deve assistere, quindi in questo caso i genitori, sia per chi deve comunque lottare per se stesso… e secondo me tu sei stata, almeno dal tuo racconto, secondo me tu sei un grande esempio su questo… o almeno questo è quello che è arrivato a noi, quindi ti ringrazio davvero ancora…
Come ultima cosa ti chiederemmo cosa diresti magari a qualcuno che si trova nella condizione che hai vissuto tu, ma che sta ancora aspettando, sta ancora lottando, per arrivare ad un trapianto…]
Di non mollare mai.
Credo sia la sintesi perfetta, poche parole ma forse le più giuste… A me verrebbe da dire “Non mollare perché nonostante tutto è possibile comunque… è vero che purtroppo tante cose possono andare male, ma tante cose anche possono andare bene e permettere di condurre una vita bella… quindi se oggi sei qui dopo 13 anni a raccontarci la tua storia, e non è assolutamente una cosa facile da fare, quindi ecco… il motto è giusto, mi è piaciuto… breve, conciso ma giusto e calzante… Io ora ti chiederei solo come stai tu, come ti senti tu adesso che abbiamo concluso?
Io mi sento bene, non so se ho sintetizzato bene la mia storia, forse avrei dovuto approfondire di più in certi momenti, però sono tante le cose, le emozioni, i momenti vissuti, i confronti, i dispiaceri anche a volte… perché poi bastava anche solo una parola di un estraneo che ti rivoluzionava tutta la giornata, tutta la settimana. Mi ricordo di un giorno, ad un mese prima dal trapianto, anche se io non lo sapevo che era un mese prima, che ero ricoverata a Bergamo per cercare di migliorare i parametri del respiratore e sotto, fuori dal reparto, c’era una panchina e all’interno le macchinette del caffè, quindi al pomeriggio scendevo, mi prendevo il cappuccino con la mia bombola dell’ossigeno e me lo bevevo tranquilla all’aria aperta, perché era primavera inoltrata. Ad un certo punto è arrivata una signora che si è messa a fumare a fianco me guardandomi. Io tra me e me mi dicevo “adesso mi chiederà se mi dà fastidio il fumo”, invece tutt’altro. Mi ha guardata e mi ha chiesto che cos’avessi. Io ricordo di averle risposto che stavo aspettando di essere trapiantata perché avevo la fibrosi cistica. A quel punto lei ha tirato un sospiro di sollievo e mi ha detto “meno male, pensavo avesse l’asma come mio marito, il pensiero di vederlo nello stato in cui è lei mi faceva paura”.
Diciamo che nelle condizioni in cui ero arrivata a volte veramente mi beccavo delle sberle enormi dalla società.
È un’altra questione questa importante… penso sia un grande problema… è vero che è difficile capire dall’esterno, penso sia impossibile capire tutto quello che hai passato, però anche un minimo di coscienza, di cultura proprio su queste cose penso che sia essenziale un minimo di tatto. Immagino quindi ci siano tante cose da raccontare… quello che volevamo dirti è che con una storia così come la tua questo può essere un primo incontro, ma nulla ci vieta di fare un altro di questi incontri, anzi noi siamo molto disponibili ad approfondire… quindi se senti la necessità o hai voglia di raccontare noi siamo super disponibili a fissare anche un altro incontro in cui possiamo parlarci, perché è importante… spero che tu sia stata bene e sia stato un bel momento anche per te… che sia andata bene…
Sì sì, per me è stato un bel momento e anzi, il desiderio che ho avuto per tutti questi anni, e che in questi 13 anni non si è mai avverato, è che le persone trapiantate da anni di polmone e che continuano a stare bene venissero “usate” all’interno del Gaslini nel reparto della fibrosi cistica. Non intendo fisicamente, perché per noi ora è impossibile per non infettarci di nuovo, però con questi strumenti tecnologici, per incentivare chi ha queste difficoltà a non mollare.
È cosa che non è mai stata richiesta e non è mai stata fatta e secondo me è un peccato.
Assolutamente, è un buono spunto… e questo è un po’ uno degli obiettivi di questo progetto… non in modo così specifico in questo caso come hai detto tu per esempio al Gaslini, quindi metterti in contatto con persone che stanno vivendo in questo momento la fibrosi cistica, però comunque è un primo passo… di cultura, promozione e soprattutto un modo per cercare di stare vicino a chi sta vivendo in qualche modo una storia un po’ analoga alla vostra… quindi speriamo che possa essere il primo passo nella direzione giusta per cambiare un po’ questa cultura che c’è attorno a questo tema… Allora grazie ancora, davvero… grazie, grazie, grazie…